La malattia di Alzheimer colpisce tutti in maniera indiscriminata anche se è doveroso far presente che essa si manifesta maggiormente nelle persone anziane. L’invecchiamento nel mondo occidentale ha comportato un cambiamento della struttura demografica della società, modificando in modo più che evidente, la percentuale di anziani presenti nel mondo. L’aumento di questa fascia della popolazione ha portato indubbiamente all’emergere di numerose patologie che fino a qualche decennio fa non erano minimamente conosciute: una di queste è proprio l’Alzheimer.

Questa patologia può essere definita come la causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei paesi occidentali e rappresenta circa il 60% dei casi di deterioramento mentale. La malattia di Alzheimer è caratterizzata dalla presenza di lesioni dei neuroni corticali e sottocorticali collegati ad un’alterazione neurochimica. La patologia si contraddistingue inoltre per il suo esordio “subdolo” e insidioso, difficilmente riconoscibile, e un decorso lento e progressivo.

Fino ad oggi una diagnosi certa può essere eseguita solamente esaminando il tessuto cerebrale dopo la morte mentre, tutte quelle formulate precedentemente, sono da considerarsi possibili ma non certe. Allo stesso tempo un soggetto affetto da Alzheimer non è sempre consapevole della portata dei suoi problemi soprattutto quando i problemi di memoria o di comportamento non sono tali da nuocere alla dimensione della sua vita quotidiana.

Sicuramente il non essere riusciti a trovare ancora una soluzione alla malattia di Alzheimer è uno dei maggiori insuccessi collezionati dalla comunità scientifica nel corso del ventesimo secolo, ma la ricerca è in costante aggiornamento e da circa 15 anni si è costituito un coordinamento tra l’Istituto Nazionale di Ricerca sugli Ictus ed i Disturbi Neurologici e Comunicativi degli Stati Uniti e l’Associazione per la Sindrome di Alzheimer ed i Disturbi Correlati che propone costantemente nuovi criteri per lo studio e la diagnosi.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Communications circa i meccanismi fisiopatologici che sono alla base della malattia apre le porte a numerose prospettive di ricerca. Un gruppo di ricercatori italiani coordinati da Marcello D’Amelio, docente di fisiologia umana e neurofisiologia all’ Università Campus Bio-Medico in collaborazione con il Centro Nazionale delle Ricerche e Fondazione Irccs Santa Lucia – ha scoperto che l’inizio della perdita neuronale non avverrebbe nell’ippocampo, sede delle informazioni nel nostro cervello, ma nell’area tegmentale ventrale: una porzione del mesencefalo coinvolta nei meccanismi di regolazione del tono dell’umore.

L’ippocampo è però direttamente connesso all’area tegmentale ventrale per mezzo della dopamina. Nel momento in cui la sorgente è danneggiata, il neurotrasmettitore risulta insufficiente o in alcuni casi, del tutto assente. L’assenza del neurotrasmettitore determina come conseguenza un danno alla memoria facilmente individuabile a livello dell’ippocampo. Con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina aumenta anche il rischio di una progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione dell’umore che si riscontra nei malati di Alzheimer.

Con questa scoperta è stato possibile individuare un nuovo sintomo che non è da sottovalutare nei casi di diagnosi della patologia. L’emergere di fenomeni depressivi infatti, potrebbe essere concomitante alla perdita della memoria.  Allo stesso tempo sarà possibile immaginare nuove strategie terapeutiche che si concentrino, questa volta, sull’impedire in modo selettivo la morte di questi neuroni.

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