Cosa accende in noi la scintilla che ci spinge ad essere compassionevoli?

La risposta a questa domanda è l’empatia. Per empatia si intende la capacità della persona di porsi nella situazione di un altro essere umano o, più esattamente, di comprendere immediatamente le emozioni  dell’altro. A partire dai primi anni 90’ la problematica della comprensione empatica è stata al centro di un significativo e vivace dibattito nella filosofia della psicologia e nella filosofia della mente oggi rientranti nella scienza cognitiva.

In passato gli scienziati ritenevano che i bambini piccoli non si preoccupassero del benessere degli altri, ma ultimamente è stato scoperto che l’empatia si manifesta già entro il primo anno di vita. Nel dettaglio grazie alle moderni tecniche di scansione celebrale, gli studiosi possono identificare le aree del cervello che si attivano quando si prova empatia. Combinando queste prove con altri dati scientifici, che vanno dalle valutazioni psicologiche, alle analisi genetiche la scienza ha cominciato ad individuare i fattori biologici e ambientali da cui dipendono le nostre capacità empatiche.

Ad oggi è possibile affermare che il circuito dell’empatia sia collegato ad aree differenti del sistema nervoso che svolgono ruoli diversi. In particolare, la corteccia somato-sensoriale ha la capacità di regolare la reazione viscerale al dolore fisico altrui. Il lobo parietale inferiore riesce a rispecchiare le azioni ed emozioni altrui. Il solco temporale superiore rileva le espressioni oculari e i movimenti altrui mentre la giunzione tempero parietale immagina i pensieri altrui.

Nel tempo grazie all’attiva ricerca scientifica si è riusciti a capire che il circuito dell’empatia si attiva mediate variazioni genetiche che consentono ad alcuni di riconoscere meglio le espressioni facciali o di produrre un enzima che riduce l’aggressività. Allo stesso tempo è stato possibile concludere che una base d’amore nell’infanzia potrebbe trasformare l’individuo geneticamente predisposto alla mancanza di empatia in un cittadino socialmente attivo e non violento.

Uno studio recente condotto presso l’Università di Hebrew a Gerusalemme, dove il comportamento di alcuni bambini veniva osservato nel momento in cui vedevano il prossimo in difficoltà, ha dimostrato che un individuo è in grado di provare compassione anche prima dei sei mesi d’età. In particolare, gran parte dei bambini reagisce a stimoli simili con espressioni del viso che riflettono preoccupazione. Per questo motivo dopo una serie di studi accertati si è arrivati alla conclusione che la capacità di provare empatia e trasformarla in compassione può essere considerata innata ma non immutabile. Nel dettaglio gli scienziati sono stati capaci di dimostrare che sia possibile bloccare il male sul nascere ma anche rafforzare gli istinti sociali positivi. Infatti, il cervello sociale è malleabile anche in età adulta, poiché empatia e compassione utilizzano reti celebrali diverse che attraverso alcuni esercizi, possono permettere l’aumento di entrambi i sentimenti. Una di queste pratiche, derivata dalla tradizione buddhista, prevede che il soggetto mediti su una persona cara indirizzando affetto e gentilezza verso l’individuo per poi estendere gradualmente quei sentimenti verso conoscenti, estranei e persino nemici.

A seguito di tutto gli studi condotti sulla capacità di indurre empatia in un individuo potenzialmente violento ha dimostrato che si possa diventare più altruisti anche se in base alla propria genetica non si è portati alla compassione. Questo concetto non può che essere positivo per la società e grazie l’allenamento alla compassione, che è alla base dell’apprendimento della persona, l’empatia e la compassione possono diventare tratti comuni a tutti gli esseri umani.

 

FONTE:  The Therapeutic Relationship in the Cognitive Behavioral Psychotherapies Gilbert, P., & Leahy, R. L. (Eds.). (2007).