Con il termine giapponese Hikikomori, che significa letteralmente “isolarsi, stare in disparte”, è possibile identificare una specifica tipologia di persone che si dimostra restia ad abbandonare la propria condizione di sofferenza sostenendo di stare bene nella solitudine, di non avere nulla da spartire con i coetanei, oppure di essere senza alternative, convinto che nessuno possa aiutarlo. Il fenomeno è ancora poco conosciuto e spesso diagnosticato come depressione.

I soggetti affetti da questo disturbo infatti non escono dalla camera delineando confini immaginari, si rifugiano in una realtà alterata da videogame e giochi di ruolo e il loro unico contatto con l’esterno è la rete virtuale che si creano. È noto che molti soggetti arrivano ad abbandonare gli studi o a tagliare ogni relazione persino quella con i genitori.

Di recente gli studi condotti su questo gruppo di persone si sono intensificati per cercare di capire come nasce questo disturbo e in che modo aiutarli, qualora fosse possibile. Nel dettaglio possiamo affermare che, nel corso dell’esistenza, noi esseri umani sviluppiamo una serie di convinzioni sul funzionamento della realtà, generando degli schemi mentali che ci consentono di filtrare le informazioni che ci vengono dal mondo esterno, elaborarle e incasellarle nel nostro essere. Questi schemi sono necessari poiché le nostre risorse cognitive non sono infinite e necessitiamo di punti fermi che ci aiutino a fare ordine in una realtà dimensionale caotica e piena di stimoli.

Quello che succede ai hikikomori è differente. In questi soggetti infatti, si instaura un meccanismo psicologico che favorisce la cronicizzazione dell’isolamento che nasce a livello irrazionale e scaturisce da una difficoltà dell’individuo nell’instaurare relazioni interpersonali soddisfacenti. L’ambiente sociale, spesso rappresentato da quello scolastico e dal rapporto quotidiano con i coetanei, diventa fonte di malessere e viene quindi respinto.
Questo bisogno di isolamento potrebbe essere dunque interpretato come un meccanismo di difesa istintivo che porta l’hikikomori a evitare il più possibile le relazioni sociali dirette  abbandonandosi alla solitudine. In questa fase viene quindi identificata una correlazione causa-effetto tra il proprio malessere e il rapporto diretto con gli altri.

Questi schemi mentali sono dunque come delle lenti che determinano il nostro modo di percepire il mondo, in un processo per cui l’esperienza determina gli schemi e gli schemi, a loro volta, determinano il nostro modo di interpretare l’esperienza.  Porsi a contrasto con quest’ultimi, essendo particolarmente rigidi e composti da una serie di convinzioni, che si sono fortificate nel corso di molto tempo e che sono divenute parte integrante dell’identità del soggetto no n permette di uscire da questa condizione. Questo è il motivo per cui il soggetto arriva talvolta a respingere qualsiasi tentativo di aiuto.

Tale aspetto emerge da uno studio condotto su 288 madri e padri dell’associazione genitori di Hikikomori Italia, la cui età media dei figli è risultata essere pari a 20 anni. Questi ultimi, secondo la maggior parte dei partecipanti al sondaggio (circa il 60%), avrebbe un’alta consapevolezza del proprio problema, eppure, solo una minoranza di loro sembrerebbe predisposto a ricevere aiuto.

Interessante notare però che, quando è stato chiesto direttamente a 89 soggetti in isolamento sociale quanto fossero disponibili a essere aiutati, la percentuale si è ribaltata rispetto a quella riportata dai genitori con oltre il 60% di risposte positive. Questo ha portato a ipotizzare che esista un disallineamento e un fraintendimento di fondo tra quello che è il tipo di aiuto che gli hikikomori vorrebbero ricevere e quello che invece viene offerto.

 

Per analizzare l’argomento è possibile visionare il video di approfondimento:

SaluScienza 2018 Prof.ssa Daniela Lucangeli ” Digitale SI, Digitale NO: conosciamo davvero gli effetti del Digitale sui processi maturazionali del Neurosviluppo?”

 

Fonte

Galbussera, M. (2016). The hikikomori phenomenon: when your bedroom becomes a prison cell. IJFS –Interdisciplinary Journal of Family Studies, 21(1), 54-72.