effetto-placebo1-300x270Credere che qualcosa possa farci stare meglio induce ad un reale progresso psico-fisico: ricerche scientifiche, condotte senza tregua dal 1990 al 2013 ad opera di Jeffrey Mogil del Pain Geentic Lab della McGill University di Montreal e dal suo team di esperti,  avvallano con maggiore forza questa ipotesi e dimostrano come l’effetto placebo sia una concreta conseguenza delle aspettative di guarigione del paziente. Se da un lato i finti trattamenti terapeutici funzionano con sempre più costanza, riuscendo spesso  a placare il dolore tanto quanto il farmaco vero, le cure reali dimostrano una modesta diminuzione del loro grado di competitività, lasciando la aziende farmaceutiche in difficoltà per il lancio di nuovi farmaci sul mercato.

Oggetto di studio e di ricerche, la questione ha suscitato l’interesse degli già citati studiosi canadesi che si sono adoperati per trovare una risposta ed una motivazione plausibile alla mancata riuscita dei molteplici trial clinici. Per essere commercializzato, il prodotto deve superare tanto la fase preclinica quanto le tre fasi cliniche, dimostrando la propria efficacia e la propria superiorità su vasta scala rispetto al farmaco contendente. Ma se il farmaco contendente in questione risulta essere privo di principi attivi specifici e soprattutto più efficace di una terapia chimica, ci si trova di fronte all’ascesa del placebo e al conseguente calo del prodotto farmaceutico. La validità della tesi trova fondamento nelle parole di un professore ordinario di Neurofisiologia e Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Torino, Fabrizio Benedetti; il professore, difatti, afferma che la veridicità dell’effetto placebo non rappresenta alcuna novità per il mondo medico-scientifico, in quanto già ampiamente comprovata nei diversi studi riguardanti la depressione ed il dolore neuropatico pubblicati, nel 2005 prima e nel 2008 poi, sulla rivista Neurology

Visto che per ora questo fenomeno rimane una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti, l’indagine in tale campo si rivela ancora più interessante e singolare; è infatti come se i placebo statunitensi abbiano virtù, per lo più sconosciute in Europa e in Asia, che spingano i pazienti in esame a dichiarare che il beneficio del placebo supera quello del farmaco in diversi casi.
Jeffrey Mogil esplica quelle che secondo lui sono le cause del fenomeno: negli Usa (unico caso insieme alla Nuova Zelanda), è possibile fare pubblicità ai medicinali inculcando così nel consumatore finale un maggior senso di fiducia e una maggiore predisposizione verso i farmaci stessi e chi li prescrive o li somministra. Inoltre, gli Americani (negli USA, è risaputo, si ama fare le cose in grande) riescono a coinvolgere nei diversi trial clinici persone altamente qualificate e strumentazioni sofisticate, così da mostrarsi in modo più autorevole ed imponente agli occhi del paziente, che, così sollecitato, aumenterà la propria aspettativa verso la cura. Una beffa a tutti gli effetti per chi capitalizza in ricerca, sviluppo e studi innovativi, pensando che l’ammontare degli investimenti sia direttamente proporzionale al successo della cura.
E se un’azienda interessata alla vendita di un farmaco innovativo tenterà quindi di minimizzare l’effetto placebo, riducendo intenzionalmente l’aspettativa nei pazienti e creando un ambiente circostante razionale e poco empatico, i neuroscienziati ne approfitteranno per investigare sulle correlazioni esistenti tra corpo e mente, cercando di comprendere cosa scatta nel cervello dei pazienti che assumono il farmaco privo di principi attivi e che, nonostante tutto, riscontrano miglioramenti.
Come già affermato in un remoto studio pubblicato su The Lancet nel 1978 e più recentemente da uno scrittore americano specializzato in microbiologia, Jo Marchant, la prima cosa che si evince è come il contesto sociale sia un elemento estremamente influente nel processo di elaborazione del sintomo da parte del paziente, il quale si lascerà suggestionare dall’ambiente che lo circonda e dalle persone che gli sono vicino. Marchant infatti, facendo riferimento ad uno studio pubblicato sulla rivista PloS One e condotto da alcuni ricercatori di Harvard (Ted Kaptchuk et al., 2015) su persone affette dalla sindrome dell’intestino irritabile, rimarca l’importanza delle interazioni sociali e del ruolo significante che assumono nel processo di guarigione. Parole confortanti, sensazioni di fiducia stimoleranno in lui il rilascio delle endorfine, sostanze con un potere analgesico simile a quello della morfina. Ciò che conta, pertanto, non è solo la medicina somministrata bensì le parole, i gesti, le emozioni, il linguaggio non verbale che vengono dai medici con cui si interfaccerà il paziente. Si tratta di meccanismi inconsci che portano il malato a modificare la propria percezione a partire dalla speranza di beneficio che egli ripone nel trattamento e dai feedback che riceve dal mondo esterno.
La fonte: Healthdesk

 

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