Un pool di ricercatori dell’Istituto di biologia molecolare (IMB) di Mainz, in Germania, ha spiegato sulle pagine di una delle più rinomate riviste del settore, “Genes & Development”, il perché l’essere umano invecchia e non si è limitato a parlare di tutti quei processi che colpiscono i tessuti o gli organi del corpo umano, ma è andato oltre. I ricercatori, diretti da Holger Richly, hanno condotto lo studio prendendo in esame un verme molto usato nei test biologici e che prende il nome di verme Caenorhabditis elegans;

ciò che hanno subito messo in evidenza è che l’invecchiamento e i vari processi riguardanti il mantenimento dallo stato di salute dei vermi in questione è correlato alla presenza di alcuni geni che sono coinvolti nel meccanismo dell’autofagia, durante la quale viene effettuato la sostituzione dei vari componenti del citoplasma cellulare, con la conseguente eliminazione degli organelli oramai danneggiati e poco funzionali. Si tratta di un processo veramente importante per la sopravvivenza delle cellule e permette il corretto svolgimento dell’intero ciclo vitale della cellula.
Questo studio rappresenta una tappa fondamentale nell’oramai trito dibattito tra gli evoluzionisti; difatti, stando a quanto affermato da Darwin, la selezione naturale determina un progressivo aumento dei soggetti dotati dei tratti ottimali per l’adattamento all’ambiente in cui vivono e che quindi gli permetterebbero maggiori possibilità di sopravvivere. Ciò che ne deriva è la diffusione dei geni che caratterizzano questi tratti nella discendenza. Per dirlo in parole povere, se una determinata caratteristica risulta particolarmente utile per garantire la riproduzione, la selezione per quella caratteristica sarà molto più forte.
Ciò che sorprende è che la selezione dovrebbe garantire tutti quei tratti che permettono di ritardare l’invecchiamennto ma ciò non avviene; si discute sull’argomento sin dal XIX secolo, ma è solo con il biologo americano George C. Williams e la formulazione dell’ipotesi della pleiotropia antagonistica che si fecero grandi passi in avanti. In breve, ogni gene può esercitare diversi effetti sulla vita di una persona: è possibile che favorisca la riproduzione ma abbia effetti negativi nell’età post-produttiva, andando a ridurre la longevità. In questo caso, ci sarebbe lo stesso la propagazione del gene in questione poiché poco importa di ciò che accade durante l’età più anziana dell’essere umano. Questa teoria è stata comprovata da modelli matematici e i suoi effetti sono verificati scientificamente; ciò di cui non sapevamo nulla fino ad oggi era l’esistenza di questa tipologia di geni. L’autofagia, invece, ci ha offerto questo ultimo tassello mancante.
Richly, insieme al pool di esperti che lo hanno seguito passo passo, è partito dal presupposto che nel verme C. elegans l’autofagia rallenta il suo meccanismo con l’avanzare dell’età, sino al totale deterioramento in età anziana. Nella ricerca in questione, inoltre, non solo sono stati identificati i geni che prendono parte all’autofagia ma gli scienziati hanno provato anche a silenziarli, riscontrando sin da subito un grande miglioramento nel loro stato di salute e un aumento delle probabilità di sopravvivenza.
L’importanza che lo studio rappresenta per la salute umana è tanta; basti pensare che le malattie neurodegenerative come il Parkinson o l’Alzheimer sono correlate a un non corretto funzionamento dell’autofagia e vi è la possibilità che i geni in questione possano rappresentare una grande opportunità per la salvaguardia della salute dei neuroni in caso di patologie di questo genere.

La fonte: Le Scienza, Futurism

 

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