Clostridium difficile è un bacillo Gram Positivo, anaerobio, sporigeno, largamente diffuso nel suolo, presente nel tratto intestinale degli animali e che colonizza circa il 3% degli adulti sani.

In ambito clinico è responsabile di diverse tipologie di infezioni (C. difficile-associated disease, CDAD, o infezione da C. difficile, CDI) di differente gravità. Esistono diversi ceppi di C. difficile, alcuni non producono tossine e non sono patogeni altri invece possono produrre un’enterotossina A e/o citotossina B che si lega alla superficie delle cellule epiteliali delle mucose intestinali, vengono internalizzate e catalizzano la glicosilazione di alcune proteine citoplasmatiche con successiva morte cellulare.

La gravità della patologia è variabile: l’infezione si può manifestare come diarrea lieve, ma può anche giungere a scatenare colite pseudomembranosa, megacolon tossico e perforazione intestinale. Le manifestazioni cliniche gravi, alle quali soprattutto si associa un rischio di mortalità, sono più frequenti se l’infezione è sostenuta da nuovi ceppi più virulenti.

Da un’analisi statistica il numero di casi di infezione risulta in aumento. Infatti, dal 2001 al 2003, in alcuni ospedali del Canada si registra una notevole frequenza di casi gravi e un aumento di oltre tre volte della mortalità. Nel dettaglio, in 12 ospedali del Quebec si registra una incidenza di oltre 22 casi/1000 ricoveri con una letalità del 6,9%.  Un aumento analogo dell’incidenza viene riportato negli Stati Uniti, in Inghilterra ed in altri paesi europei.

Cosa ha portato a questo aumento così rapido?

Quello che sicuramente si riscontra è che una prolungata terapia con antibiotici, utilizzati ormai anche per guarire da una semplice influenza stagionale possa rappresentare il principale fattore di rischio per l’attacco da Clostridium difficile, che può indurre diarrea profusa e non controllabile. Quello che emerge dalla ricerca scientifica è che l’antibiotico-terapia tende a modificare il microbiota e, quindi, a predisporre la flora intestinale alla replicazione in massa di questi germi patogeni.

Per affrontare in maniera innovativa l’infezione, un trattamento promettente per i casi d’infezione ricorrente da Clostridium difficile potrebbe essere il trapianto di feci: tale tecnica permette di “ristrutturare” il microbiota del paziente inserendo direttamente nell’intestino la microflora di persone sane.

Il trapianto di feci da un soggetto sano a uno con patologie infettive gastro-intestinali resistenti ai trattamenti antibiotici ha un’origine lontana. Già in Finlandia, si era soliti utilizzare feci di polli sani per inoculare pulcini appena nati ed impedire che venissero infettati da batteri come le Salmonelle. Allo stesso tempo però il primo vero trapianto clinico risale agli anni 50’ anche se la vera attenzione da parte del mondo scientifico può essere ricondotta alla fine del 2013. Data la diffusione di ceppi poli-antibiotico resistenti la motivazione di questo interesse clinico risiede nella mancanza di efficaci presidi antibiotici.

Numerosi sono gli studi condotti negli ultimi anni nel mondo per capire quali possano essere gli effetti collaterali di un possibile trapianto e se ci siano o no differenze tra i diversi individui che potrebbero portare ad un insuccesso terapeutico. Quello che si è evidenziato in questi anni è che i soggetti obesi hanno una flora batterica diversa rispetto a quella dei soggetti magri e studi su vari modelli animali, hanno dimostrato che il trapianto della flora batterica da un animale obeso a uno magro, determina un rapido aumento di peso in quest’ultimo e viceversa.

Ad oggi, a seguito di numerosi studi e test clinici, il primo trapianto di microbiota intestinale in Italia è stato eseguito a Roma presso la Fondazione Policlinico Agostino Gemelli. Il trapianto è stato effettuato su un paziente con diarrea da Clostridium difficile resistente agli antibiotici e da un donatore parente di primo grado in buone condizioni generali. Ad oggi possiamo confermare che il paziente ha ben tollerato il trapianto senza effetti collaterali evidenti o possibili rigetti.

In conclusione, si può confermare che il trapianto fecale può essere considerato una strategia terapeutica innovativa che permette di ridurre il principale fattore di rischio associato all’ antibiotico- terapia.

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